come afferma Casimiro Mangia (Breve Guida Topografico-Storica della Città di Oria. Ed. Marrazzi, Oria 1961) «capo ceppo» della setta clandestina antiborbonica di Oria.
Soggiornò moltissimo a Napoli, dove studiò, conseguendo il Diploma di Belle Lettere, Filosofia e Giurisprudenza, nel 1845, e dove forgiò il suo temperamento di politico antiborbonico col frequentare i famosi Caffé «Buono», «De Angelis», «Danzelli», «Gran Bretagna», «Ercolano» e «Comito», luoghi di convegno di tutti quei «riscaldati» (testualmente riportato nella biografia scritta dal figlio Attilio, dal titolo Un Attendibile) che aspiravano alla realizzazione di un'Italia libera e indipendente.
Risiedendo in Oria, tesseva le fila antiborboniche, incontrandosi spesso nel Caffé «Persico» di Lecce con gli altri «liberali» di Terra d'Otranto.
A 31 anni, Camillo Monaco, nonostante questa militanza politica, non era ancora ritenuto un «sovversivo» dalle autorità napoletane; lo fu soltanto quando, su personale richiesta decise di congedarsi dal Corpo delle Guardie d'onore del Re, nel quale si era arruolato appena ventunenne.
Il Monaco, infatti, siccome i Mazziniani e i liberali cavuriani avevano intrapreso iniziative più marcate nel Sud d'Italia per scrollare il regime borbonico, sentì che era giunto anche per lui il momento di aumentare il suo impegno politico, muovendosi tra Oria, Lecce e Napoli con maggiore insistenza.
Per questo motivo, l'11 gennaio 1851 fu sottoposto a interrogatorio: I giudici volevano sapere qualcosa sulla sua passata permanenza in Napoli e sui suoi continui spostamenti.
Rinchiuso nelle carceri di Santa Maria di Capua per 55 giorni, fu poi liberato, ma rimase incluso nella lista degli «Attendibili».
L'anno seguente, precisamente il 27 agosto 1852, la sua casa di Napoli fu sottoposta ad accurata ispezione dall'ispettore Franco Cangemi che vi trovò carte e materiale giornalistico, a suo dire, interessanti.
Ritenuto «sovversivo», Camillo Monaco trascorse, quindi, gli anni tra il 1851 e il 1859, ora sotto sorveglianza speciale, ora in carcere, ora al confino.
Intanto il Regime borbonico volgeva alla fine. A nulla era valsa la concessione della Costituzione, né il viaggio, che il Re Ferdinando II aveva fatto pur tra il tripudio di tante popolazioni pugliesi, come quella di Oria, di Sava, di Fragagnano, di Carosino e di San Giorgio, aveva riavvicinato al trono borbonico le masse di tante città.
Lo stesso Re sembrava esserne consapevole. La frase che il Re pronunciò alla moglie «Teré, che brutto viaggio facimmo sta vota» ha tutta l'aria di un vaticinio.
Il 22 maggio, Ferdinando dovette abdicare in favore del figlio, Francesco II, ma anche questa iniziativa politica non valse a scongiurare la fine del regno delle Due Sicilie.
Garibaldi con i suoi «picciotti» aveva liberato la Sicilia ed ora sul Volturno sbaragliava l'ultima resistenza borbonica.
Il 17 marzo 1861, l'Italia era finalmente proclamata «unita, indipendente e monarchica».
I riconoscimenti politici che Camillo Monaco ricevette per la sua opera di cospiratore e di patriota in appoggio alla causa unitaria, furono molti, ma quello che gli diede un enorme prestigio personale e l'autorità di intervenire, in nome di Garibaldi prima e di Vittorio Emanuele II poi, nelle faccende politiche e amministrative del Comune di Oria, fu la nomina di «Commissario Straordinario del Comune», affidatagli dal Governo Provvisorio Dittatoriale di Napoli, il 6 settembre 1860.
Organizzato un Corpo di Guardie Nazionali, il Monaco fu nel paese l'unico responsabile dell'ordine pubblico e l'indiscusso capo politico.
Non tutti gli Oritani erano, però, diventati «liberali» e «filopiemontesi».
Molti cittadini mal sopportavano il nuovo corso storico e aspettavano un'occasione propizia per intervenire.
La scintilla fu provocata il giorno di Pasqua, 31 marzo 1861, circa due settimane dopo l'Anniversario della proclamazione ufficiale dell'Unità d'Italia.
Il tumulto pubblico, scoppiato in Piazza Manfredi verso l'imbrunire, fu però prontamente stroncato dalla Guardia Nazionale. Il figlio del Monaco, suo biografo, liquidò l'avvenimento con poche battute, come un fatto di poco conto. Ma non fu di poco conto!
In quella circostanza, infatti, la Guardia Nazionale si macchiò del sangue di tre cittadini, uccisi a colpi di baionetta, e di numerosi feriti.
Già l'aria che si respirava nel paese in quegli anni era surriscaldata a causa delle fazioni politiche fortemente contrapposte dei «liberali» e dei «borbonici».
Finanche il Clero in Oria e nell'intera Diocesi era diviso.
Da un lato vi erano i sacerdoti fìloliberali e amici del Monaco; dall'altro i sacerdoti conservatori, legati al «borbonico» Monsignor Margherita, Vescovo di Oria.
Attilio Monaco afferma nella biografia paterna che Monsignor Vescovo era un «appassionato difensore della causa borbonica, procurandosi, per questo, l'odio di molti e il domicilio coatto nel 1860».
Insomma, la faziosità politica era tale in Oria che alcune famiglie tentarono di uccidere il Vescovo che celebrava in Cattedrale un Pontificale, sparandogli addosso dall'alto della cupola e la Chiesa oritana, dopo la fuga del Vescovo, cadde in uno scisma che durò ben tre anni.
Una cosa è certa: la caduta dei Borboni arrecò in città persecuzioni, angherie e soprusi da parte dei vincitori «liberali» e il tumulto sedato nel sangue ne è la prova più evidente.
Dopo cinque anni di potere assoluto da parte della fazione liberale, le elezioni del 1866 videro nell'Amministrazione Comunale la vittoria dei Conservatori.
Camillo Monaco, passato all'opposizione, non si dette pace per la sconfitta subita e cominciò ad attaccare i nuovi Amministratori non tanto nel loro nel politico quanto nella condotta morale di privati cittadini, giungendo a denigrarli pubblicamente. Fece perfino stampare le sue maldicenze su un giornale di Taranto, intitolato «L'Eco dei due mari».
Gli Amministratori Comunali risposero a queste ingiurie tramite un libello scritto dal sacerdote don Cosimo De Angelis, contenente tutta la cronistoria degli abusi e delle prepotenze del Monaco, fatte fino al 1866. (L'opuscolo fu però firmato da Luigi Carone!).
Alla risposta degli Amministratori, il Monaco fece seguire una tardiva querela per diffamazione, nel 1869.
L'aria era divenuta nuovamente irrespirabile in Oria!
Gli Amministratori, a questo punto, sollecitarono un'inchiesta della Magistratura affinché appurasse l'operato del Monaco per tutti gli anni del suo mandato di «Commissario straordinario» e di «Capitano della Guardia Nazionale» e indagasse sulla sua responsabilità morale nella vicenda del tumulto del 31 marzo 1861.
Furono cosi incriminati:
Camillo Monaco, Capitano della Guardia Nazionale, Assessore e Consigliere Municipale; Orsini Francesco, guardia extralegale; Biasi Francesco, guardia extralegale; Di Mauro Pasquale, guardia extralegale, calzolaio; Fella Noè, guardia extralegale, falegname (pregiudicato e condannato per furto); Patisso Giuseppe, guardia extralegale, falegname (pregiudicato e condannato per furto); Attanasio Vincenzo, guardia extralegale.
Il Pubblico Ministero definì costoro «uomini pessimi» e «Bravi» per usare le parole testuali. Lo stesso giudizio fu espresso nella Deliberazione della Camera di Consiglio (vol. 2°, foglio 170).
«Camillo Monaco — cosi si legge — capo del paese, aveva i suoi fidi; tra questi annoveravansi gli imputati e qualche altro che erano reputati "Bravi" del tempo di mezzo. Tutto era in quella stagione lecito a costoro. Minacce, villanie, insulti, battiture e furti vedevansi in quei dì e l'onesta gente taceva perché il Re di Oria in suo segreto tutto approvava. Dovettero in prosieguo sorgere giorni migliori per il trionfo della giustizia perché, rassicurati gli animi, dai cittadini furono denunciati e provate talune delle ribalderie consumate da quei tristi e Noè Fella e Giuseppe Patisso (facienti parte di questa triste associazione), come colpevoli di furto ora espiano la pena della reclusione».
I capi di imputazione per il Monaco e per i suoi collaboratori furono:
1)-Furto dei troni episcopali della Chiesa di Oria;
2)-Violazione di domicilio;
3)-Arresti arbitrari e abuso di potere;
4)-Cagionamento della morte di tre cittadini;
5)-Calunnie contro Francesco De Angelis;
6)-Grassazione ai danni di Francesco Russo.
Camillo Monaco, per difendersi, dovette ricorrere ai migliori avvocati del foro leccese, tra cui l’avv. Leonardo Frascassovitti, l'avv. Vincenzo Barletti, l'avv. Marco Paladini e l'avv. Giuseppe Falco, i quali sostennero, durante il dibattimento, la faziosità dell'accusa, l'insufficienza delle prove, l'ineluttabilità della necessità di stato e l'inesistenza delle minacce al Giudice mandamentale.
Il verdetto fu di assoluzione per il Monaco e per tutti gli altri imputati con le seguenti motivazioni:
- molti omicidi, consumati durante quegli anni di trapasso politico, erano rimasti impuniti;
- la causa era stata celebrata dopo diverso tempo dall'avvenimento dei fatti;
- l'esasperata faziosità dei testimoni a carico e a scarico aveva nociuto alla ricerca della verità.
Il «Cittadino Leccese» del 1° aprile 1871 esaltò la decisione dei giudici, scrivendo: «Noi siamo lieti che a Camillo Monaco, patriota di antica data, sia stata resa la libertà che gli era stata tolta, sol per aver fatto il suo dovere in difesa dell'ordine e del pubblico diritto».
«Il Propugnatore», un altro giornale salentino, il 3 aprile dello stesso anno, usciva con la notizia dell'assoluzione del Monaco e con una breve cronistoria del tumulto che aveva causato la morte di tre cittadini, insinuando, infine, che la causa era stata voluta dai nemici del partito liberale.
Oggi, grazie al ritrovamento del carteggio in copia presso la famiglia Filotico, (carteggio della causa contro Camillo Monaco, conservato nell'Archivio privato della Famiglia Filotico di Oria, composto da 270 fogli rilegati più n. 3 giornali riportanti l'episodio (n. 2 «Cittadino Leccese»; n. 1 «Il Propugnatore») gli avvenimenti di quel tempo possono essere rivisitati con maggiore analisi.
A noi che l'abbiamo letto attentamente, il Carteggio ci ha dato l'occasione di ritrovare molti elementi nuovi che ci portano ad essere abbastanza critici nei confronti del Monaco, vedendo in lui non tanto l'autore materiale della morte dei tre poveri disgraziati cittadini, quanto l'autore morale e l'organizzatore consapevole del fatto di sangue.
Era il giorno di Pasqua, un giorno festivo, durante il quale i paesani solevano radunarsi in Piazza Manfredi per incontrarsi e discorrere tra loro.
Da circa due settimane era stato celebrato in Italia l'Anniversario dell'Unità e quel giorno festivo dovette essere ritenuto dai liberali abbastanza adatto perché in Oria se ne rievocasse la memoria.
Per questo motivo il Monaco aveva fatto arrestare numerosi cittadini, tra cui Cosimo Mola e Cosimo Calò, da lui ritenuti «sobillatori» in quanto avevano prezzolato dei ragazzi perché gridassero in Piazza «Viva Francesco II».
Nel pomeriggio, fu fatta sfilare la Banda cittadina per le vie del paese.
L'accompagnavano dei mestatori politici, amici del Monaco, che bastonavano e minacciavano coloro che non gridavano «Viva Vittorio Emanuele II».
Giunta in Piazza la banda, il Sergente della Guardia Nazionale, don Nicola Pinto, fu invitato dal Monaco a tenere un pubblico comizio.
Dovette esserci qualche manifestazione di insofferenza da parte di qualche cittadino fìloborbonico se il Monaco fece intervenire la Guardia Nazionale.
Il suo intervento fu cosi violento che in poco tempo giacquero per terra, in una pozza di sangue, finiti a colpi di baionetta, Marcello Sartorio, suonatore di piatti, Pasquale Pastorelli, ex borbonico, manovale, e Pietro Sartorio, padre di Marcello, suonatore di trombone.
Che l'intervento della Guardia Nazionale fosse inutile lo si deduce ampiamente dalle deposizioni rese durante il processo:
Francesco D'Amico, guardia nazionale, dichiarò che né il sabato né la domenica di Pasqua vi era ragione di temere una rivolta.
Vincenzo D'Amico disse che in quella maniera si erano voluti togliere di mezzo i «retrivi».
Angelo De Angelis, guardia nazionale, disse che la Guardia non era stata né minacciata né provocata.
Domenico Greco definì le Guardie Nazionali «schiuma di briganti», protetti dal Monaco. Giovanni Toscano, guardia nazionale, accusò il Monaco, dicendo che fu lui ad aizzare le guardie.
Domenico Trincherà affermò che a tirare colpi di baionetta fu l'Orsini, una guardia extralegale. Pietro Conte disse che non vi era bisogno dell'intervento della Guardia Nazionale in Piazza. Pasquale Attanasi affermò che era inutile la riunione in Piazza, stante il fatto che vi era pericolo di reazione. Isabella Antonini, madre del Pastorelli ucciso in Piazza, accusò di omicidio le extraguardie Orsini e Biasi e definì il Monaco « il Re del paese ».
Che l'intervento della Guardia Nazionale fosse, inoltre, provocatorio, lo si deduce dal fatto che la fazione borbonica era stata resa impotente a nuocere, giacché il Monaco aveva fatto arrestare oltre al Mola e al Calò, Angelo Masiello, contadino; Cosimo Mingolla, contadino; Cosimo De Fazio, contadino; Pasquale Barone, proprietario; Raffaele Manisco, contadino e Luciano Manisco, ex soldato borbonico, sbandato.
Dal Carteggio, infine, apprendiamo che nelle mani degli uccisi, presunti agitatori, non vi fu trovata un'arma; che il dottore Giuseppe Danusci, incaricato ad eseguire l'autopsia fu minacciato dai «liberali» e che il Giudice Istruttore permise la ricognizione dei cadaveri e l'autopsia dopo qualche giorno, quando la decomposizione era già in stato avanzato.
Un'ombra, dunque, cala su questa figura che l'opinione pubblica ha sempre ritenuto un eroe garibaldino e che in seguito al ritrovamento del Carteggio appare piuttosto un fazionario violento e prepotente.
Quale delle due immagini è la vera?
Agli studiosi la risposta!
Noi ne abbiamo voluto parlare non per desiderio di dissacrare e gettare nel fango la personalità di un uomo ma per amore della ricerca storica e della verità.
Prof. Antonio Benvenuto
PRESENTAZIONE di Anna Maria Andriani sulla riproduzione anastatica del volume Un Attendibile: Camillo Monaco (1927), scritto dal figlio Attilio, in occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini. Anno 2006.
L'edizione del volume Un Attendibile: Camillo Monaco (1927), scritto dal figlio Attilio, documenta la storia di un patriota nel contesto del movimento risorgimentale salentino e nazionale, che mirava all'indipendenza e a un regime di libertà, fortemente ispirato al pensiero e all'azione di Giuseppe Mazzini.
Camillo Monaco (1819-1896), terzogenito di Pasquale ("gentiluomo" e proprietario) e di Gaetana Vita di Veglie, nel 1838 si arruolò nella Guardia d'Onore in Terra d'Otranto e, nel 1841, si trasferì a Napoli per frequentare gli studi giuridici. Una volta nella capitale del Regno delle Due Sicilie, egli entrò nella grande conversazione ideologica italiana ed europea e diede inizio alla sua avventurosa storia di "liberale temerario mazziniano". Il 6 luglio 1856, a Napoli, sposò Nicoletta Leanza dalla quale ebbe nove figli: sei maschi e tre femmine. Affascinato dagli ideali di libertà e di indipendenza, commosso dal tentativo fallito dei fratelli Bandiera, egli chiamò i suoi primi due figli Emilio e Attilio; Garibaldi fu il nome del penultimo figlio, nato nel 1864, e Italia quello della figlia nata nel 1873. Sorvegliato dalla polizia borbonica, entrò nel mirino del commissario Morbilli, il quale aveva intrapreso una "crociata contro i barbuti" nel 1850.
La famiglia Monaco viveva in Oria, modesto centro agricolo economicamente e socialmente arretrato, del distretto di Brindisi. Nella città, governata da un Decurionato, la popolazione era distinta in ricchi proprietari o galantuomini proprietari, civili professionisti, "artieri", contadini e braccianti. Due i partiti politici: uno sostenitore del tradizionale regime borbonico e l'altro orientato verso il nuovo ordine di cose, in cui si identificavano le "ambizioni del Monaco".
Un Attendibile si legge come un diario dell'avventura umana e politica di Camillo Monaco, ricostruito dall'interno - con il portato delle emozioni e delle tradizioni di famiglia dello scrivente, figlio del protagonista - con la razionalizzazione e il distacco dello storico, ma anche di quello stesso figlio ormai in pensione, ma che era stato, anche, cittadino del mondo. Attilio, allora, volle fissare sulla pagina quello che William Wordsworth chiamava "emotion recollected in tranquillity" (emozione ricordata in tranquillità): le lotte per l'indipendenza che avevano preceduto la sua infanzia e i cui racconti avevano nutrito la sua adolescenza. Il lettore di Un Attendibile nota, comunque, tra le righe, una trepida, velata tristezza nei punti in cui lo scrittore-figlio non riesce a spiegare atteggiamenti e comportamenti, a disperdere le ombre, a fugare per sempre insinuazioni e terribili dubbi, quasi volesse giustificarsi di fronte al padre - protagonista della biografia - e di fronte agli altri martiri della libertà, per non essere riuscito a capire appieno e a far piena luce sulle ombre del sospetto. Preoccupato a illuminare le zone buie che avvolgono la vita del padre, soprattutto in quel difficile periodo vissuto a Napoli a cavallo tra 1848 e 1860, il figlio biografo intuisce, sfiora le questioni, ma non tace i dubbi circa l'azione del padre; tace, invece, sui due processi del 1861 e del 1870 circa "i fatti delittuosi" accaduti in Oria il giorno di Pasqua, 31 marzo 1861.
Traspare dalla lettura dell'Attendibile il profondo senso di solidarietà umana col padre, esponente di una nobile tradizione famigliare e di un momento storico, dei quali comprende le varie esperienze, uniche e irripetibili. L'autore coglie nei protagonisti la triplice valenza culturale, storica e umana, insieme con la tensione politica. Camillo Monaco emerge come un personaggio chiave della storia di Oria e prezioso anello di raccordo, come apostolo e protagonista del movimento repubblicano unitario nazionale basato sul "Pensiero e Azione" mazziniano.
Proponendo all'attenzione del pubblico Un Attendibile: Camillo Monaco si è voluto aggiungere un'altra tessera mancante - dopo quella di Sir James Lacaita - a quel gran mosaico della nostra storia nazionale.
Il che non significa che il caso Camillo Monaco sia stato risolto, perché la domanda resta: chi è stato veramente Camillo Monaco? Cosa ha fatto?
Egli fu, anche come risulta dagli atti del processo del 1861:
"il Regio Subeconomo della Diocesi di Oria per l'operosità prestata nei fatti dal 1860 al 1861; il Regio Delegato Straordinario in Torre Santa Susanna; il Maggiore della Guardia Nazionale investito dell'onore e del titolo di Cavaliere dei SS.ti Maurizio e Lazzaro; il Consigliere Provinciale; il Presidente della Congregazione di Carità; l'Esattore Fondiario [carica cui il Monaco rinunciò perché "lucrativa"]".
E, come controparte, egli fu visto anche come
"Feudatario del Medio Evo, anzi [...] Re del paese colla sua corte di Bravi, ordina e fa eseguire violenze e delitti contro i forzati vassalli"?.
Pertanto, solo uno studio incrociato delle fonti reperibili potrebbe fare emergere più chiaramente la figura di Camillo Monaco.
La proposta editoriale della sua biografia delineata dal figlio Attilio, arricchita anche dell'Albero Genealogico della famiglia Monaco e degli Indici dei nomi e dei luoghi, offrendo altra materia di riflessione, vuole essere un invito ad ampliare e approfondire le ricerche.
A. M. Andriani
[A pag. 15 de Un Attendibile (a cura del figlio Attilio) si legge: “In queste pagine, che non contengono la cronaca di avvenimenti straordinari o l’accenno a condanne gravi, riporto solo particolari di persecuzioni e di angherie poliziesche contro un attendibile, mio Padre: vecchie cose di un mondo scomparso, sperdute nel turbinio degli anni, e di cui non resta altra traccia che in carte di archivio, ora sature di muffa e di passato, ma che temibili mani hanno scritto e sfogliato.”]
Qui di seguito trascrivo un profilo tracciato dal Dr. Pasquale Spina nel suo bellissimo libro sulla toponomastica oritana: "Oria/ strade vecchie, nomi nuovi; strade nuove, nomi vecchi. Anno 2003.
[Il personaggio cui è dedicata questa via è senz'altro un protagonista della vita oritana nella seconda metà dell'ottocento. Camillo Monaco nacque il 22 febbraio del 1819 da Pasquale e da Gaetana Vita. Apparteneva ad una delle famiglie più antiche e ricche di Oria. A leggere i due lavori più probanti scritti su C. Monaco, la biografia del figlio Attilio e il processo di A. Benvenuto, sembra, quasi, di trovarsi di fronte a due personaggi completamente diversi: da un lato il martire dei borboni, il patriota ispirato da ideali di libertà, il propugnatore di idee nuove; dall'altro un personaggio prepotente e vendicativo che per perseguitare le sue vittime non esitava a usare la violenza. Come al solito la verità non sta mai tutta da una parte: a prescindere che avesse o meno degli ideali di libertà, subì, fino al 1860, diversi processi e condanne da parte della giustizia borbonica.
All'avvento dei Savoia potè finalmente mettere in atto le sue aspirazioni di essere protagonista della vita politica e amministrativa della sua Città: da allora e fino alla sua morte non vi furono cariche e missioni comunali alle quali Camillo Monaco non fosse chiamato. Fu nominato commissario del Governo Provvisorio Dittatoriale, fu, quasi ininterrottamente, consigliere comunale, per lunghissimi periodi, assessore, e fu anche sindaco facente funzione. Contemporaneamente a questi incarichi amministrativi Camillo Monaco ricopriva altre cariche assai prestigiose: fu Maggiore della Guardia Nazionale e Comandante del battaglione di tutto il Mandamento, fu il primo Presidente della Congregazione della Carità e fu Sub-economo Diocesano di Oria nominato con Decreto Ministeriale dell'8 marzo 1863.
Accentrando tutto questo potere, era inevitabile che non si presentassero occasioni in cui Camillo Monaco avesse modo di esercitare quelle vendette nei confronti di coloro dai quali era stato avversato nel periodo borbonico.]
Qui di seguito un pezzo tratto dal libro: "La Diocesi di Oria nell'800, di Carmelo Turrisi".
Emerge un’altra interessante figura di quei tempi: quella del vescovo di Oria Luigi Margarita.
Il movimento risorgimentale si evolve sotto Ferdinando II (1830-1859) il cui governo, sebbene più aperto ai problemi del tempo e meglio disposto di fronte alle innovazioni positive del Decennio francese, non riuscì tuttavia a soddisfare il movimento trasformista guidato dalla borghesia intellettuale il cui programma includeva una migliore «organizzazione amministrativo-burocratica, uniforme e accentratrice, contro il caos delle legislazioni e degli istituti, e le stratificazioni delle consuetudini privilegiate; anticlericalismo, o meglio anticurialismo... tolleranza religiosa e incipiente laicizzazione dello stato e della vita sociale... ». Il nunzio mons. Antonio Garibaldi avvalorava la fondatezza di queste richieste scrivendo al segretario di stato monsignor Ferretti a proposito dell'ormai famoso opuscolo di Luigi Settembrini intitolato «La protesta del popolo delle Due Sicilie» del 1847:
Il libello è dispiaciuto assai alle persone affezzionate al Re, perché si cerca di rendere odiosa la persona del Monarca, procurando di farlo comparire colpevole di tutto il male della pubblica amministrazione che si espone e deplora, attribuendogli maggiori difetti che non ha, e dissimulando quello che avvi di buono in Lui. Però conviene dire che la sostanza dei pubblici mali, contro i quali si reclama, è purtroppo seria: voglio dire la mancanza d'ordine e di legalità nell'amministrazione, di zelo e probità nei pubblici impiegati dall'alto in basso, fatte ben inteso le debite eccezioni, che come vere eccezioni debbono realmente riguardarsi.
Si giunse pertanto per conseguenza alla rivoluzione del 1848 e alla concessione della Costituzione del 29 gennaio che accordava le guarantigie rappresentative e istituiva il parlamento nazionale. La notizia, giunta in Puglia il 1° febbraio, sollevò entusiastiche accoglienze. Si ebbe la sensazione d'essere usciti dal caos e dal buio. Anche i « Rapporti periodici della polizia » dell'anno notificavano l'accoglienza festosa della Costituzione a Sava, a Francavilla, a Ceglie ed a Oria, dove accaddero pure vari disordini dettati dall'antica rivalità tra « poveri e ricchi ». Le illusioni suscitate dalla concessa Costituzione durarono fino al 12 marzo 1848 quando fu ritirata e furono raccolte firme di adesione alla iniziativa, suscitando la reazione immediata dei liberali. La diocesi stessa ne fu coinvolta (Vedi Nota 1). Il governo rimediò subito con rinforzate misure poliziesche e condanne contro i fautori della Costituzione.
Alla morte di Ferdinando II, che trascorse gli ultimi anni di regno nel « più completo assolutismo », salì sul trono il figlio Francesco II, al quale fu riservata la triste sorte di assistere alla scomparsa della dinastia borbonica dal regno delle Due Sicilie sotto la spinta dell’azione dei Mille. Dopo la presa di Napoli (7 settembre 1859) e quella di Gaeta (13 febbraio 1861), lasciò definitivamente il paese ritirandosi a Roma, da dove alimentò una debole reazione favorendo la rinascita del brigantaggio (Vedi Nota 2).
Negli ultimi anni della monarchia borbonica la diocesi di Oria fu retta dal Margarita nativo di Francavilla Fontana, unico vescovo di questo periodo uscito dall'ambito stesso della diocesi. Nei Processi fu descritto:
Vir gravitate, prudentia, doctrina, morum probitate, rerumque experientia praeditus et in ecclesiasticis functionibus apprime versatus, dignus propterea, qui Ecclesiae Oritanae in Episcopum praeficiatur.
Per Pietro Palumbo, autore di una storia di Francavilla, liberale e aperto oppositore del Margarita, questi sarebbe stato eletto alla cattedra di Oria « per protezione sovrana più che per meriti, non essendo altro che un mediocre frate della Congregazione di S. Vincenzo dei Paoli » legata alla causa borbonica, agevolato dal fratello Antonio che aveva raggiunto una potenza economica sposando una della famiglia Bottari. Qualche anno più tardi la sua nomina fu sospettata di simonia. Il canonico De Angelis, facendo ricorso al s. Padre nel 1857 contro il proprio vescovo, scriveva:
[... solo rassegno a V. Beatitudine, che oltre tanta inettezza si benigni prendere in considerazione la simonia pubblicamente nota... La simonia di Margarita fu strombettata pel Regno da un servo moro, che portò 8 mila ducati; e la Diocesi adesso ne può contestar tanti fatti.]
Questa affermazione, non potendo essere valutata criticamente per la mancanza di altri documenti, può sembrare almeno sospetta tenendo conto che il De Angelis era stato relegato in un convento di Ruvo dal Margarita. La notizia della simonia fu comunque raccolta da alcuni autori come il Palumbo e l’Argentina. Il primo parla di 12 mila ducati e mette in risalto lo spirito di arrivismo del Margarita. L'Argentina parla invece di 18 mila ducati offerti al ministro del Culto perché venisse proposta la sua persona alla s. Sede per occupare una cattedra vescovile. Ma non se ne mostra certo, anzi stima l'accusa di simonia « un mendacio calunnioso »:
I 18.000 ducati-oro se veramente sborsati al Ministro borbonico dei Culti dell'epoca, non implicavano il delitto di simonia, perché serviti ad ottenere che il P. Luigi Margarita della Missione fosse proposto alla Santa Sede per la nomina a vescovo di Oria, come persona meritevole e gradita alla R. Corona di Napoli. Si comprava in effetti la proposta, che poteva anche essere bocciata, e non il beneficio ecclesiastico da chi aveva la facoltà di conferirlo (Nota 3).
Più attendibile sembra invece l'insinuazione che il governo avesse proposto il Margarita alla s. Sede per le sue tendenze spiccatamente borboniche e che lo avesse destinato ad una diocesi dichiarata da alcuni « nido tradizionale di assolutismo e di prepotenza » e dove certamente tutti i vescovi predecessori avevano dimostrato indiscusso attaccamento ai Borboni. È certo che il periodo dell'episcopato del Margarita in Oria è da annoverarsi tra i più agitati e difficili per le situazioni politico-sociali che richiedevano un certo adattamento psicologico al quale egli non era preparato. Perciò non fu in grado di concepire, per i vari problemi che si affacciavano alla ribalta della storia, una soluzione diversa dal giurisdizionalismo confessionale borbonico considerato ancora un « caposaldo per l'opera di ricostruzione, di cui appariva cosi urgente il bisogno ».Ciò spiega pure quel certo servilismo del Margarita ai Borboni riconosciutogli anche dal nunzio (Vedi Nota 4).
Ma la monarchia borbonica aveva concluso la sua storia nel Sud e quando scomparve alla fine del '59 non suscitò meraviglia, giacché da tempo si avvertiva di non poter assolvere alla sua missione più oltre. Diverse cause avevano preparato la sua fine: la frattura con la cultura illuministica meridionale che aveva appoggiato spesso il riformismo borbonico credendo, a differenza di altri stati, nella possibilità di una collaborazione ma su basi più democratiche; la crisi dell'istruzione, dell'esercito e della burocrazia, la triste situazione economica che, nonostante i tentativi di riforma, non riusciva a sollevare le condizioni del popolo; e infine la mancanza di una attenta diplomazia nel campo delle alleanze che la costrinsero a rimanere sempre nel cerchio dell'influenza austriaca. È per questo che il Margarita, borbonico per devozione, cominciò a subire le conseguenze delle sue scelte politiche all'indomani della scomparsa dei Borboni, insieme a gran parte dell'episcopato meridionale. Non mancò chi pensava che i vescovi del Sud avessero aderito al nuovo assetto politico solo per voler pacificare le diverse fazioni. Si trattava, scrive la « Civiltà Cattolica », d'imposture contro di essi:
Di che poi, secondo il solito, si valsero i sovvertitori per mettere i Vescovi in aspetto di sleali e felloni al legittimo loro Re, lodandoli d'aver aderito al nuovo ordine colà stabilito dal tradimento e dalla forza. Ciò è falsissimo. Assai pochi tra i Vescovi piegarono a tanta viltà, e parecchi, come a cagion d'esempio, l'Ordinario di Altamura, scrissero lettere molto energiche per disdire l'imposture con cui faceasi di loro bontà si perfido abuso, mettendoli in mostra di aderenti alla rivoluzione. Cosi suole ripagarsi dai tristi la pietà e la carità del Clero.
Questa fedeltà dell'episcopato alla causa borbonica, a differenza del basso clero, venne dichiarata anche in una relazione del 18 agosto 1860 al ministro degli Interni:
Un fatto ho da segnalare a V.E. quasi universale, e che in modi più o meno espressi si ripete, in presso che tutte le diocesi del Regno; ed è che i Vescovi si scuoprono, generalmente parlando, avversi al nuovo ordine di cose. Solamente ci ha differenza nel modo, che alcuni fanno allo Statuto una opposizione quasi direi passiva, non consentendo che si svolga con quelle libertà ed in quella maniera, che si richiede a voler che porti frutti degni della maturità dei tempi in che siamo. Altri poi, più vivo contrasto facendogli, e quasi la divisa vestendo di congiuratori, dimentichi ad un tempo e dell'ufficio sacerdotale e del debito di cittadini, colla parola che è possente sulle loro labbra, e con atti scopertamente ostili, si fanno centro di reazione, e gli onesti liberali inducono a pensieri che non ebber mai, togliendo forza al Governo, ed il paese ponendo in sullo sdrucciolo di cadere nell'anarchia... (Vedi Nota 5).
Tra i vescovi ritenuti responsabili di opporsi alla concessione dello Statuto costi-tuzionale accordato da Francesco II nel '48 e richiamato in vigore con un decreto del 1° luglio 1860, fu inserito pure il Margarita insieme ad una parte del suo clero.
Ma la reazione anticostituzionale del clero e dei lavoratori fu generale nel Salento.
Gli anni che seguirono all'Unità d'Italia segnarono lo scontro, in politica ecclesiastica, del « rigido giurisdizionalismo meridionale » con la formula concepita dal Cavour della libertà dello Stato e della Chiesa. Ciò non piacque al ministro Mancini e ad altri meridionalisti i quali ammettevano che lo Stato dovesse continuare ad esercitare le sue storiche prerogative dell'exequatur, del placet e simili che lo ponevano in una posizione di supremazia sulla Chiesa. Questa divergenza di vedute si manifestò pure quando fu presentato il disegno di legge delle Guarentigie per sistemare la posizione della S. Sede dopo la presa di Roma e la caduta del potere temporale. Essa era stata impostata sulla nuova formula cavouriana del separatismo tra Stato e Chiesa.
Tuttavia questi anni furono dolorosi per i vescovi del regno che manifestarono con lettere pastorali il loro sentimento sulle « luttuose vicende » italiane, dimostrando solidarietà al papa per i fatti dello Stato Pontificio. Nel gennaio 1860 l’episcopato del regno di Napoli indirizzò una lettera al Papa, che recava anche la firma del Margarita. L'azione politica del Margarita risente di queste circostanze. Egli, pur avendo avuto per maestro il P. Tommaso Contieri di tendenza liberale, rimase filoborbonico, anzi fu creduto « spia borbonica ». Eppure egli stesso aveva dichiarato al nunzio che uno dei primi atti del suo episcopato era stato « di non immischiarsi in faccende politiche, ma di continuare nella santa Missione del Sacerdozio » insieme al suo clero. E tuttavia fu obbligato ad occuparsene sia perché credeva nella missione dei Borboni a favore della Chiesa, sia perché stimolato dalle numerose adesioni del suo clero al nuovo assetto politico. La sua autorità gravò sui preti liberali i quali, nei ricorsi alle autorità e nelle adunanze capitolari, lo descrissero non pastore ma commissario di polizia, « religioso strumento della tirannide borbonica », avvolto in litigi, seminatore di dissensi, di desolazione e di pianto per i preti liberali che spesso egli castiga. E pertanto egli fu costretto a subire le conseguenze del suo agire da parte della reazione liberale quando fu proclamata la Costituzione. Si manifestò contro di lui e la sua famiglia religiosa creduta anch'essa « spia borbonica ». Si ritirò a Francavilla per tranquillità. Parte del numeroso clero, quello liberale, della sua natale città non ne gradi la presenza ed avanzò al sindaco Nicola Barbaro-Forleo la richiesta di allontanarlo:
Urgente ed imperioso bisogno proclama pronta sortita di questo indegno prelato. Per lo che la presente petizione caldamente a voi si raccomanda o Sindaco e Decurioni che di nostra patria i bisogni rappresentate acciò autenticata da vostra decisione, rassegnata fosse all'Intendente per l'efficacia di sua esecuzione.
Il 16 agosto 1860 il decurionato votò per acclamazione l'assoluto trasloco del Vescovo e del fratello Segretario acciò non avvenisse alcun disordine fra questa popolazione che mal vede il suddetto Prelato e perché fosse provveduta la Mensa Vescovile ora vacante nel fatto, il che tiene in disordine i Cleri e perciò i popoli della Diocesi (Vedi Nota 6).
E si voleva pure che il clero non liberale fosse privato delle cariche, perché era ritenuto responsabile delle discordie tra la popolazione. Sotto la pressione del decurionato che aveva avanzato un rapporto al governatore della Terra d'Otranto si allontanò dalla sua famiglia ritirandosi a Napoli a S. Giovanni a Teduccio affidando la diocesi al tesoriere D. Pasquale Maggio. Essendo questi dello stesso indirizzo politico del vescovo fu costretto a dimettersi il 4 settembre 1860, e il suo posto fu occupato dal vecchio D. Cosimo Lombardi sostenuto dai liberali rivoluzionari che assalirono il palazzo vescovile, ruppero il trono e bruciarono lo stemma vescovile, mentre altri « ambiziosi del Capitolo Oritano, interpretando secondo il proprio punto di vista le leggi canoniche, persuasero i Colleghi a dichiarare la Diocesi di Oria sede vacante, per l'assenza del Vescovo e l'ignoranza del suo domicilio e a domandare alla Luogotenenza di Napoli il sequestro delle rendite della Mensa Vescovile » (Vedi Nota 7). Il Lombardi durò in carica pochi mesi, e il 1861 si dimise per motivi di salute o forse perché il vescovo dichiarò nulla la sua elezione. Nonostante che la Luogotenenza di Napoli lo consigliasse non gli fu dato un sostituto e per conseguenza il diritto passò alla chiesa metropolitana di Taranto. Essendo mons. Giuseppe Rotondo (1855-1885) lontano per le stesse ragioni politiche che avevano colpito il Margarita, l’elezione fu fatta dal suo vicario canonico D. Agostino Baffi che mandò ad Oria D. Ciro Pignatelli di Grottaglie. Ma la s. Congregazione dei Vescovi e Regolari diffidò il Pignatelli con un rescritto del 23 novembre 1861, nominando al suo posto il canonico D. Vincenzo De Angelis. Pignatelli non solo non si dimise, ma ottenne dal governo di far relegare il De Angelis prima in Brindisi e poi in Lecce. Grande fu il disordine e profonda la rottura tra il clero margaritano che faceva capo al canonico Maggio e il liberale che riconosceva il Pignatelli. Al primo erano rimaste poche chiese per officiare, ma furono scelte dalla maggioranza del popolo per ricevere il battesimo e celebrare i matrimoni. Si sviluppò un certo disorientamento anche nei monasteri femminili che rifiutarono l'autorità del Pignatelli perché la dichiaravano illegittima « e di esser solo legittima — scriveva lo stesso Pignatelli — quella del famigerato lontano Vescovo Margarita, e del suo Pro-Vicario Generale Can. De Angelis ». Il canonico De Angelis, da Lecce dove era relegato, non cessava, secondo il rapporto del Pignatelli, di seminare in tutti i paesi di questa Diocesi la più accanita ragione morale, e politica insinuando a vari Ecclesiastici isconoscermi, come han fatto, con provocare dalla S. Sede rescritti, darli corso non ostante scevri di Regio Exequatur, dé quali mi onoro confogliarne uno capitatomi, e dal medesimo con sua Relazione procurato, dal quale si rileva chiaro, che nell'atto, che io governo questa Diocesi come Vicario Capitolare, egli si sforza furtivamente governar da Vicario Generale.
La posizione del relatore divenne infine insostenibile per l'accanita lotta mossagli dagli avversari, che egli chiamava « emissari Borboniani e Margaritiani », e si dimise il 25 settembre 1863. Gli successe nuovamente il canonico Maggio per volere del vescovo e furono favoriti questa volta i margaritani fino alla venuta del Margarita nel '66, che però, costretto nuovamente ad allontanarsi colpito dalla legge Crispi dei «sospetti » del maggio 1866, accusato « quale perturbatore dell'ordine pubblico », fu relegato prima a Lecce, poi a Fenestrelle, da dove tornò con una forma di sordità abbastanza seria da cui non si rimise mai completamente. Nel '67 ritornò definitivamente in sede.
Qui termina la crisi politica della diocesi ed inizia l'opera di ricostruzione pastorale per recuperare la parte del clero che aveva abbracciato il nuovo indirizzo liberale e ridare fiducia al popolo sconvolto dalle lotte intestine. Nella sua relazione ad limina del '66 il Margarita tracciò un quadro della situazione politica e morale della sua diocesi verificatasi durante i cinque anni circa di assenza notando le avversità e gli attacchi alla religione.
In questo stato di cose la Chiesa avrebbe avuto bisogno di elementi sensibili al nuovo ordinamento di cose per non compromettere del tutto l’azione pastorale.
Ci domandiamo se monsignor Margarita fu un vescovo preparato ad assolvere al suo compito pastorale. Egli, «lottatore nella difesa della fede », venne accusato di ostacolare « ogni più santo e ragionevole progresso ». Forse anche per il suo carattere egli non riuscì a guadagnarsi la stima e la collaborazione di tutto il suo clero. Nell'ambiente esacerbato delle critiche e dei ricorsi fu descritto come: « dispotico, dal carattere aspro, indelicato, poco avveduto, prepotente, idolatra di se stesso, vanitoso, caparbio, ingordo, avaro, crudele, dalle punizioni capricciose e dalle umiliazioni pubbliche, sino dai pergami... ». Non è da sottovalutare che anche in età borbonica l'assenza di pace nell'ambito della diocesi aveva suggerito a quel governo, nel 1854, il trasferimento ad altra sede che però venne rifiutato dal Margarita. Anche il nunzio sembrava convinto della fondatezza delle accuse contenute nei ricorsi per cui consigliava:
Ella nella sua penetrazione ben comprende quanta delicatezza nei momenti presenti si richiede per guidare in tutta carità il Clero, e quindi quanto studio abbisogna prima di decretare al medesimo delle punizioni.
Si è d'altronde rimarcato la molta facilità con la quale V.S.I. fino dai primordi del suo governo ha stimato far prevalere la spada dei castighi, al soave gioco della croce, dano a quasi tutti i Cleri della Sua Diocesi esempi di punizione... Anche la facilità di comminare le censure Canoniche, e la necessità di revocarle non produce il miglior effetto... Poggiato io sul principio che molto si ottiene con la dolcezza, e poco o niente col generalizzare le punizioni, ho convinzione che adopererà modi, e ponderazione, e carità nei castighi, e nelle risoluzioni tutte di qualche rilievo, e si guarderà dai consigli che lungi dal dirigerla al bene della Diocesi, ne procurerebbero il danno.
Quanto ai consiglieri ai quali accenna, il nunzio aveva accettato come vera la relazione dell'arcivescovo di Taranto, Raffaele Blundo (1835-55), su una diceria corrente nella diocesi di Oria secondo la quale i cleri « rimasero più dispiaciuti, perché le punizioni venivano dalle insinuazioni fatte dai cinque Fratelli del Vescovo, sicché dicono che i Vescovi di Oria sono sei, e non uno ».
Chi cercò di scusare il comportamento del Margarita fu il vescovo di Nardo, Luigi Vetta (1849-73), che riferiva al nunzio:
Da quelli stessi che biasimano, e riprendono la condotta del Vescovo rappresentasi la Diocesi di Oria come grandemente indisciplinata, e scorretta a segno da potersi giudicare effetto di santo zelo ciocché ad altri sembra impeto, rigore, e deferenza, e che al più potrebbe al Vescovo consigliarsi di usar alquanto maggior prudenza, e nella santa opera di rialzare la scaduta disciplina Ecclesiastica procedere con passo meno celere, e più misurato.
Esaminando le sue lettere ai capitoli delle chiese e i suoi vari interventi, abbiamo ricavato l'impressione di trovarci di fronte ad un vescovo zelante ma alquanto «dispotico », per usare il termine riferito dal suo clero. Ma quasi tutti i vescovi della diocesi in quel secolo usarono il sistema autoritario suggerito dalle circostanze, dal carattere degli ecclesiastici e da quel movimento riformistico che nell'800, a partire dalla Restaurazione, sembrò desse credito all'autorità anche in ambito religioso.
(Nota 1) A. S. Lecce, Rapporti... 1848, fasc. 3183. Il rapporto del 25 febbraio annotava per Oria: « ... se non che taluni esaltati qui, e della Classe dé Proletari, o di tenue possidenza svolgono in pubblico principi di liberalismo eccedente i limiti costituzionali. Evvi quì adottamento di bandiera, mappa, e nastri tricolori ». E il 6 marzo sempre per Oria: « Le voci, poi, e le poesie lette e cantate nella ricorrenza, comunque straripassino i limiti Costituzionali, sembrano piuttosto dettate dalla foga di godere d'una libertà licenziosa, anzicché d'eccitar sedizione... ».
In generale si nota nella provincia di Lecce: « Cospirazione o attentato per oggetto di cambiare il Governo ed eccitare i sudditi e gli abitanti del Regno ad armarsi contro l'autorità Reale, e discorsi tenuti in luoghi e adunanze pubbliche per provocare direttamente gli abitanti del Regno a distruggere e cambiare il Governo, a 19 maggio 1848 in Lecce » (cfr. ibid.: Atti d'istruttoria e di processura presso la gran corte speciale criminale di Terra d'Otranto per i fatti del Maggio 1848, pp. 3-6).
Molto attivi si dimostrarono il canonico D. Salvatore Filotico e lo Schiavoni di Manduria, i quali arringavano il popolo aizzandolo contro il re che descrivevano come assassino « autore di sangue e di eccidi » e insinuando « a sconoscerlo, e che da essi dovevansi governare »
(Nota 2) P. Palumbo, Storia di Francavilla F., vol. 2°, p. 91. Monsignor Margarita invitò il canonico Luigi Raggio, professore di letteratura nel seminario di Oria, a tessere l'elogio funebre di Ferdinando II. Ma il Raggio rifiutò l'incarico affermando che « la morale e la storia che egli seguiva, non giudicavano lodevole il complesso degli atti del defunto sovrano»
(Nota 3) P. PALUMBO, Storia di Francavilla F., voi. 2°, p. 86; F. ARGENTINA, Fatti del Risorgimento in Francavilla F. (1799-1860), Fasano 1965; ID., Monsignor Luigi Margarita vescovo di Oria e la lotta col suo clero durante il Risorgimento, Bari 1955, pp. 14-15; Mons. L. MARGARITA, Lettera pastorale al clero e al popolo, Napoli 1851, pp. 5 ss. Il Margarita si dichiarava sorpreso per « l'inaspettato annunzio » del suo episcopato. Se le sue parole sono sincere, egli era esente da qualsiasi azione « simoniaca ». Il problema resta aperto perché non avvalorato da documenti, ma basato sulla testimonianza di una sola persona. In più potrebbe inserirsi nelle mosse politiche dei suoi numerosi nemici.
(Nota 4) A. S. Vat., N. Nap., 107 Oria, int. 4: minuta del nunzio al cardinale Della Genga: «Sono convinto che Mons. Margherita cerchi rendersi benevolo il Governo mediante i suoi rapporti politici...».
(Nota 5) R. DE CESARE, La fine di un Regno (Napoli e Sicilia). Parte II. Regno di Francesco II, Città di Castello 1900, p. 282. Questa relazione del Direttore dell'Interno e della Polizia fu fatta in base ai rapporti degli Intendenti di nuova nomina di tendenza liberale. Cfr. pure: A. MONTICONE, I Vescovi meridionali: 1861-1878, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l'Unità (1861-1878). I - Relazioni, Milano 1973, pp. 86-87. Sul carattere politico dei vescovi meridionali l'autore fa notare: « I Vescovi eletti anteriormente al 1861 erano in prevalenza piuttosto legati al governo borbonico e comunque profondamente avversi al movimento nazionale, tanto che quattro di essi abbandonaono le loro sedi inseguito agli avvenimenti del 1860 e rimasero a lungo assenti: il Margarita, vescovo di Oria, e il Materozzi, di Ruvo e Bitonto, erano ancora a fine 1866 nella lista di coloro che il governo riteneva non avrebbero potuto ritornare in sede; il Bruni, di Ugento, era fuggito a Napoli, ove pure si era ritirato il 1860 il Rotondo di Taranto, restandovi fino al 1871; F. GAUDIOSO, Episodi reazionari del clero di terra d'Otranto nel 1861-1865, in « Annali » della Facoltà di Magistero di Lecce, III (1973-1974), Bari 1974, pp. 227 ss.
(Nota 6) P. Palumbo, cit.; A. S. Lecce, Atti del Governatore di Terra d'Otranto, fase. 16, ottobre 1860. Contiene le due lettere del sindaco Barbaro-Forleo. Nella prima egli notifica al Governatore: « è stata approvata una petizione sottoscritta dal Clero, comunità religiose, notabili secolari e da vari altri del ceto medio con la quale a nome di questa popolazione dimandavasi pronto allontanamento del Vescovo Margarita dalla Diocesi, e il suo fratello D. Tommaso di lui segretario, e provocavasi pure la loro traslocazione, provvedendosi di altro vescovo la diocesi. E ciò perché la loro semplice esistenza nella stessa era una continuata minaccia all'ordine pubblico ».
Nella seconda lettera afferma: « Sappia che questa popolazione abbrividisce al solo nome di Margarita tanto è l'abborrimento e l'odio contro di costui ».
Il fratello del vescovo, Antonio, spiega invece diversamente il momentaneo allontanamento del vescovo da Oria: egli, stimato « quale uno dei primi proprietari terreni di quel Comune è stato sempre tenuto di mira da pochi malevoli che non rispettano le leggi e l'ordine pubblico e privato, per effetto d'invidia. Il supplicante per evitare gl'inconvenienti e vie di fatto contro di lui e la sua famiglia nel seguito cambiamento politico e nei primi movimenti che in molti comuni del regno han prodotto dei disordini cercò di allontanarsi per poco in altra città».
(Nota 7) F. Argentina, Fatti..., pp. 88-89. Cfr. pure: A. S. Nap., A. Borbone, 2220, II inv.: Colpo d'occhio su le condizioni del Reame delle Due Sicilie nel corso dell'anno 1862 (non è citato l'autore), p. 2, nota 1. È riportato il parere della stampa neutrale del tempo sul comportamento del governo nei confronti dell'episcopato meridionale: « Quando da' Municipii del Napoletano si fanno istanze al governo, come in parecchie Diocesi è avvenuto, perché sia richiamato il Vescovo nella sua residenza, il governo risponde essere i Vescovi perfettamente liberi.
Nello stesso tempo dà a' Vescovi il consiglio di non ritornare per ora, per non correre pericolo nelle ostilità, e reazioni.
Intanto li riguarda come assenti volontariamente, e ne confìsca i beni della Mensa, eccitando lo zelo dé suoi esattori con l'aumento del compenso dal 3 al 20 per cento su le rendite Vescovili che introitano ».
La domanda nasce spontanea: “In quale casa è nato Camillo Monaco? “ Risposta: “Io non lo so, ma posso dirvi con certezza che una famiglia oritana custodisce gelosamente alcuni effetti personali (finanche la sua culla) del “Re di Oria” (come venne definito in occasione del processo a C. Monaco dalla madre di uno degli oritani morti.)